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Quando gli Ebrei di Pitigliano festeggiavano la Pesach

La Pesach o Pesah  o la Pasqua Ebraica..
è una festività ebraica che dura otto giorni  ricorda l’esodo e la liberazione del popolo istraelita dall’Egitto. 
 
Trascrivo  una pagina del  libro “Da Altri tempi” di Elvezio Savelli, trovata quasi  per caso.
E’ un breve racconto dove Elvezio  narra la sua esperienza da ragazzo quando,  vivendo a Pitigliano andò a  scoprire cosa facevano gli ebrei del posto,durante la festa della Pesach.  
Mi  sembra una bella pagina della storia del paese.
Una storia che ha lasciato una traccia  importante,  pensiamo che fino al 1938 c’erano 70 ebrei che vivevano a Pitigliano, mentre durante la seconda guerra mondiale i 30 ebrei che rimasero furono salvati proprio dai Pitiglianesi che dimostrando coraggio, li nascosero nelle campagne.
                                    
                          Il Forno delle azzime 

 

…..cogliemmo quel momento, incoraggiati dalla sua serenità, per andare un po’ a zonzo.
Appena fuori dal cancelletto, imboccammo il ghetto.
Era una viuzza stretta e buia, coperta da una volta bassa di mattoni corrosi dal tempo, e piena di tele di ragni.
In fondo al vicolo c’era la sinagoga, che noi chiamavamo la chiesa degli ebrei.
Scendemmo per l’altro vicolo che portava giù in fondo, fino alla finestrella della ripa, dalla quale si scorgeva la campagna e uno squarcio di cielo che dava luce al vicoletto semibuio. 
Sul lato sinistro c’era il forno, dove gli ebrei cuocevano gli azzimi per la Pasqua.
Misterioso quel forno per me! Con i suoi labirinti e i lunghi corridoi scavati nel tufo.
Il forno entrava in funzione soltanto una volta l’anno, qualche settimana prima della ricorrenza pasquale ebraica. Allora il vicolo si riempiva di ragazzi chiassosi, ingoliti dal delizioso profumo del pane azzimo. Rammento che un giorno vi entrai anch’io, mi dettero un pezzo di azzimo; quanto mi seppe buono! Quel giorno mi intrattenni lì fino a tardi.
Mi divertì tanto vedere quelle donne affaccendate attorno agli azzimi. Chi faceva la pasta col fior di farina, bianco come il latte, ma senza lievito; chi maneggiava quella pasta per ore, aggiungendovi ogni tanto dell’altra farina, finché non diventava dura e liscia come la seta; chi, col mattarello, la spianava sopra una grande lastra di marmo, dividendola in tante piccole focaccette, grandi quanto un disco, dello spessore di circa un centimetro. Altre invece bucavano le focaccine, partendo dal centro, pizzicandole col pollice e l’indice, veloci, precise, con arte davvero ammirevole.
Giravano a circolo intorno a quel disco di pasta che, man mano, prendeva la forma di un ricamo.
 
da  “Altri tempi” di Elvezio Savelli – Edikon

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